Sono trascorsi pochi giorni dalla disfatta di Caporetto, una delle più umilianti pagine della storia dell’esercito italiano. Dal 24 ottobre al 12 novembre 1917 si consumò una débacle militare senza precedenti. Le critiche di gran parte dell’opinione pubblica furono feroci. Si puntò il dito contro la viltà dei soldati per mascherare falle ben più grandi, legate ad una pessima strategia ed una inadeguata preparazione delle truppe, scarsamente equipaggiate e mandate allo sbaraglio contro il nemico. Con il morale a pezzi e il terrore negli occhi, i nostri si avvicinavano alla prima battaglia del Piave, il 14 novembre, dopo uno choc destinato a restare impresso per sempre nella memoria del nostro Paese.
Le notti e per sempre è un romanzo epistolare, in cui il protagonista – la cui natura, ricca di subdoli interrogativi, verrà svelata con il sorprendente finale– scrive alla sua amata Lenuccia dal fronte. Sono lettere che ci offrono uno sguardo sull’Italia dell’epoca, caratterizzata da un forte divario economico-sociale ed un analfabetismo dilagante. Molti dei nostri soldati non sapevano né leggere e né scrivere. Di sovente comunicavano con i loro cari attraverso cartoline prestampate o grazie ai commilitoni colti, che – tra imbarazzo e divertimento – scrivevano al loro posto, sotto dettatura. È la fotografia di uomini che non avevano mai visto il mare, che conoscevano solo il loro mondo di terra, sudore, raccolti e cura degli animali.
Poi ci sono le eccezioni, come il tenente Guarnieri, che si è portato dietro tanti libriccini e trascorre gran parte del tempo libero a leggere in disparte, lontano dal caos. Un giovane maestro, un fratello premuroso per gli altri. Ma non c’è solidarietà nelle trincee, ognuno prega per sé e per la propria vita. E se non prega, è perché ha già perso la speranza e sente di essere stato abbandonato da Dio nel fango e nella paura. E non c’è spazio per i pavidi, quelli sono ritenuti indegni di essere chiamati italiani e meritano il carcere e il pubblico ludibrio. Diffuso era l’autolesionismo, così come la censura. Ogni epistola veniva posta sotto un rigido e minuzioso controllo. Vietato assolutamente descrivere le brutture del conflitto, il suo volto crudele e spietato. “Andrà tutto bene” – si potrebbe dire con una espressione tristemente familiare. Del resto, la propaganda è e sempre resterà tale: bugie o mistificazioni per nascondere nefandezze di ogni genere, confondere le acque e indebolire i confini tra aggressori e aggrediti. Un modo per alimentare l’odio verso l’altro, per distruggerlo. La pietà è il peggior male, perché indebolisce, rende vulnerabile agli affetti e attaccati alla vita. In questo obnubilamento di valori, uno sprazzo di luce: “Ma per me l’austriaco è uno che ha lasciato i suoi cari a casa. Che ha una fidanzata come te Lenuccia mia. Che se io lo sbudello ci sarà una madre che porterà il lutto per tutta la vita come lo porterebbe mia madre se non dovessi tornare”. (Pag. 66).
Una morte che impregna ogni parte del racconto, incombe con nefasti presagi, ma è spirituale, prima accora che fisica, perché uscire indenni da una battaglia, non vuole dire essere vivi. Talvolta morire rappresenta una liberazione per tutto quello che si è visto e si è compiuto, per un’anima che si è persa e resterà macchiata. Una morte che diventa, in questo caso, espiazione dal male compiuto.
Questo è, per me, il senso più profondo di questo libro: la guerra che attacca lo spirito e lo aggredisce fino a farlo perire. Una voragine che stritola, facendo perdere il senso del sé e degli altri. Un plot tremendamente attuale, seppur ambientato durante la Prima guerra mondiale. Tempo di trincee, di fucili e baionette. Oggi sono missili, testate nucleari. Ma è sempre uomini contro uomini, scontro tra eguali – seppur diversi nella provenienza geografica e sociale – dove non è detto che il nemico sia l’altro, perché tu potresti essere il tuo peggior avversario. È l’abbrutimento, l’orrore senza fine, le nefandezze perpetrate in nome di una Patria che spesso non esiste, né nella realtà, né nel cuore di chi combatte.
Una testimonianza storica che ha un peso notevole oggi e andrebbe fatta leggere e rileggere nelle scuole. Il linguaggio è estremamente crudo, violento come giusto che sia. Una lettura devastante e spietata, in cui nulla ci è risparmiato. Un finale, ricco di pathos, che svela dettagli sul protagonista e sul modo di rappresentare il vissuto. Un testo interessante, a tratti morboso, che potrebbe diventare una intrigante pièce teatrale. Divertente l’uso del dialetto, con espressioni triviali che, tuttavia, faranno sorridere anche i più puritani: “Zoccole di chiavica grandi come cacciuttielli” (Pag. 56).
Citazione preferita
“Ci assomigliamo sai? Non sono così diversi da noi come pensavo. Uno di loro assomigliava proprio a Gaetanino il fruttivendolo. Te lo ricordi Gaetanino? La stessa faccia paffuta, lo stesso colorito rubizzo, gli stessi occhi a zennariello. Ecco, quell’austriaco era tale e quale a lui. Tra di loro c’era anche un italiano d’Austria, uno di quei nostri compatrioti che sono costretti a combattere per il nemico. Lui è italiano come me, sente le stesse cose che sento io e vorrebbe trovarsi dall’altra parte della curva: come faccio io a considerarlo nemico?” (Pag. 36).
Note biografiche
Diego Nuzzo è nato a Napoli nel 1966. Uomo versatile e creativo, si è dedicato negli anni a diverse attività. È architetto, organizzatore di eventi, scrittore e in passato è stato il proprietario e gestore di un noto locale partenopeo, il Penguin. Non ha mai posseduto un televisore, ma ha una casa che sembra una enorme libreria. Da grande appassionato di Mozart, conosce e possiede tutte le sue opere. Ama i cani, il suo Cosino, trovatello, lo ha accompagnato per anni nei suoi innumerevoli tour urbani e non solo. Ha una vespa viola (e quindi non è scaramantico) e a differenza dei suoi concittadini, non segue il calcio. Frequenta teatri e musei, anziché Stadi. Scrive nel tempo libero, come dichiarato più volte. Numerose le sue pubblicazioni: nel 1995 il suo primo romanzo I silenzi abitati delle case, nel 2014 Come se non fosse successo niente. Per Rizzoli ha scritto le biografie La profezia di Clementino nel 2015 e Non volevo diventare un boss nel 2016. Nel 2017 ha curato ed è stato coautore di Ebbrezze letterarie; nel 2019 per l’editore Homo Scrivens ha curato la revisione critica dell’autobiografia di Nino Taranto Una vita per Napoli.