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Le streghe di Manningtree
Amy Katrina Blakemore

L’opera prima di A. K Blakemore ci catapulta nell’Inghilterra del 1643, a Manningtree, piccolo borgo nella contea dell’Essex. È un periodo caratterizzato da forti conflitti tra il Parlamento ed il Re, una guerra civile che costringe gli uomini a partire per il fronte, lasciando mogli, fidanzate, figli.

Nella piccola comunità inglese il tempo trascorre tra chiacchiericcio e passatempi tediosi, in un paesaggio cupo e desolante.

Rebecca è figlia della Vedova West, madre rude e consumata dalle brutture della vita. “Persino nel sonno il temperamento di mia madre pare imporsi su ogni pianura e solco di quel viso arido, così come il timbro del caseificio su un pezzetto di burro rancido. Il suo nome di battesimo è Anna, ma tutti la chiamano “la Beldam West”. Le si addice, poiché è un appellativo ingombrante e malvagio, sembra il nome di un deserto brutto su cui Dio ha fatto cadere una pioggia di meteoriti. Beldam. “Belle” è una parola francese che significa “bella” (e bella mia madre non è, anche se dicono che un tempo lo sia stata). È “damn” come “damned”, “dannata”. Un concetto che mi guardo bene dallo sceverare”. (Pag. 14).

Ha un’indole fortemente litigiosa, la Vedova West, con una insana abitudine a ingollare vino e intrugli vari nel tugurio di Edwards. Dietro il suo burbero cipiglio sgorga una ferrea volontà ed un coraggio indomito. È una donna che lotta per la sopravvivenza sua e della figlia. Rebecca è una creatura che sembra provenire da un’altra dimensione, un elfo dipinto nella sua casetta nei boschi, immersa in un silenzio contemplativo, accanto al suo amato Vinegar. Un personaggio incredibile che osserva il mondo attraverso un’anima profondamente naïve. Un destino, il suo, segnato fin dall’inizio, come un malefico piano disegnato da altri.

Intorno a lei un universo di donne bizzarre: dalla vecchia fattucchiera Clarke alle ciarliere vedove Leech e Moore. Gli uomini sono figure opache, il più delle volte meschine e pavide. John Edes è lo scrivano. Dal suo apparente garbo Rebecca resta stregata, costruendovi un’immagine di pura fantasia. Pagherà cara questa innocente infatuazione. Non è malvagio, per la verità, ma macchiato di una codardia senza eguali e di un infausto senso della morale. Finirà per scaricare i suoi rimorsi di coscienza su Rebecca, rea di aver provocato in lui pensieri impudici ed insani.

È interessante notare come, con lo scorrere del racconto, si assista al germogliare di un clima di sospetto, accompagnato dal diffondersi di un sempre più becero moralismo, fino all’esplosione di una caccia al Maligno e a coloro che ne rappresentano la volontà terrena. I precetti religiosi sono interpretati per ingenerare soprattutto nelle donne un ingiustificato senso di colpa e vergogna. La nostra protagonista, con le naturali pulsioni della sua età, li vive come una condanna perpetua. “Mi domando se è una consapevolezza a cui giungono tutte le donne: una scelta che ciascuna deve affrontare tra il celare la propria vera essenza in cambio della considerazione di un brav’uomo o il concedersi la libertà di essere se stessa e accontentarsi di un bruto a cui non importa niente se è distrutta reale o disperata quanto lui. O è capitato soltanto a me? Sono forse sbagliata? Forse altrove fluttuavo incontaminata attraverso la vita in una magnifica ingenuità, un centimetro sopra il fango colloso, al riparo dalla razza o dall’istituto profano. A tutto questo penso e sono terrorizzata, per e da me stessa.” (Pag. 71).

Un pensiero che scorre irrequieto, intriso di una certa modernità. Checché se ne creda, è qualcosa di intimo e radicato in un certo tipo di sottocultura. In tale contesto l’arrivo di Matthew Hopkins, l’inquisitore (celato sotto le vesti del nuovo locandiere), farà esplodere le tensioni. Un imberbe che sarà la condanna e allo stesso tempo la salvezza di Rebecca. Il suo universo crollerà sotto i colpi della Inquisizione, spazzando via ogni cosa, fino alla liberazione finale.

Un epilogo ambiguo, perfetto per questo romanzo che è testimonianza storica (gran parte dei fatti sono realmente accaduti) e racconto dalle tinte noir.

Un libro scritto con linguaggio ridondante, desueto, in sintonia, però, con ambientazione e plot. Un esordio in letteratura stupefacente che vive il suo acme nella pregevole architettura dei personaggi, disegnati con notevole cura e ricchezza.

Fiumi di parole sono stati scritti sulle infauste conseguenze della Santa (?!) Inquisizione, ma l’autrice offre uno sguardo diverso, “umano” sull’inquisitore. Dietro il giudice spietato vi è un giovane con le sue debolezze e il suo gelido passato. Rebecca è un mélange di innocenza e spietato realismo. Vi farà innamorare

Le streghe di Manningtree dà voce alle donne fragili ed emarginate fatte sparire nel silenzio della legge e nel rumore assordante di una religione deprivata della sua natura caritatevole ed accogliente.

Un’opera cruda per chi ama, come me, le streghe e la loro ammaliante essenza.

Note biografiche

Blakemore è nata a Londra nel 1991. Ha studiato Lingua e Letteratura all’Università di Oxford.

È autrice di due raccolte di poesie: Humbert Summer (Eyewear, 2015) e Fondue (Offord Road Books, 2018), a cui è stato assegnato il Ledbury Forte Poetry Prize 2019. Ha anche tradotto l’opera della poetessa sichuanese Yu Yoyo (My Tenantless Body, 2019). I suoi scritti sono apparsi su numerose riviste letterarie.

Le streghe di Manningtree (2021) è il suo primo romanzo, vincitore del Desmond Elliott Prize per il miglior esordio del Regno Unito e finalista, tra gli altri, al Costa First Novel Award e all’RSL Ondaatje Prize.

Nel 2023 ha pubblicato Il goloso. Ambientata nella Francia del XVIII secolo, l’opera ripercorre la vita di Tarare, un ragazzo povero nella Francia rivoluzionaria, che diventa Il Grande Tarare, Il Goloso di Lione, ingurgitando ogni sorta di cose. Le pagine scorrono in un lungo racconto della sua vita ad una suora, accanto al suo letto d’ospedale.

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