La lettura di questo libro mi ha fatto ricordare perché, da tempo, non acquistavo più thriller. Dopo averne fatto un’abbuffata in passato, mi sembrava che non ce ne fosse più uno in grado di stupirmi. L’opera di Michaelides mi ha dato una ulteriore conferma. Osannata dal pubblico e in parte dalla critica, non mi ha impressionato. Certo, è scritta bene e non mancano dei momenti di suspence, però offre pochi brividi e si lascia dimenticare rapidamente. Eppure le premesse c’erano tutte. La storia è – o quantomeno pareva essere- di quelle accattivanti. Alicia Berenson è una donna a cui la vita sembra aver dato tutto: talento, ricchezza e un matrimonio con un noto ed apprezzato fotografo, sposo innamorato e premuroso. Eppure un giorno gli spara cinque volte in viso.
Durante il processo nessuno riesce a capirne il motivo perché la protagonista è chiusa in un mutismo granitico. Sembra che l’unica traccia dei suoi pensieri sia legata ad un quadro che richiama la tragedia Alcesti di Euripide. Alicia diventa oggetto di studio, tutti i tabloid ne parlano, cercando di interpretare l’ostinato silenzio, in un vortice di pubblici processi in cui ognuno avanza un’ipotesi. Trascorsi diversi anni l’attenzione dei media viene meno, ma non quella di uno psicologo criminale, Theo Faber, che sembra ossessionato dall’idea di occuparsi del caso e di aiutare la paziente, rinchiusa da anni in un ospedale psichiatrico giudiziario. Con il trascorrere delle pagine emerge il passato dei due protagonisti e i buchi neri da cui entrambi sono risucchiati. Ad un certo punto è naturale chiedersi dove e in quale forma si nasconda la follia. E se non rappresenti la mefitica espressione di una lucida crudeltà.
Il finale – senza alcun coup de théâtre – restituisce un’amara giustizia, che, tuttavia, strizza l’occhio a coloro che bramano la punizione dei colpevoli e la loro resa. Partiamo proprio da qui: le ultime pagine non sono all’altezza della trama. Davvero poco thrilling, in un epilogo scontato che lascia una sensazione di amaro in bocca. Credo che la maggioranza dei lettori direbbe: ”Lo sapevo!”. Sarebbe stato più interessante terminare il racconto pagine prima, quando il gioco viene svelato, lasciando, tuttavia, insoluti alcuni interrogativi sui personaggi principali.
Gli spunti interessanti non mancano, come l’attenzione sul dipinto di Alicia (un vero puzzle) ed il rapporto tra quest’ultima e Theo Faber. La cornice è di quelle altamente intriganti. Un manicomio, per quanto orribile, raccoglie le testimonianze di uomini e donne che spesso celano personalità labirintiche, in cui nulla è come sembra in apparenza. Di converso, purtroppo, nel plot pullulano gli stereotipi: la madre arcigna con figlio complessato e succube, il narcisista fedifrago, l’attricetta superficiale. Da aggiungere che alcuni volti finiscono presto nell’oblio, nonostante l’obiettivo chiaro di confondere il lettore.
Il ritmo è altalenante, con piccole battute d’arresto dovute alla forma del romanzo (testo alternato ad estratti del diario di Alicia). Un libro godibile, non un capolavoro del genere. Di sicuro, ben al di sotto delle aspettative create dalle innumerevoli recensioni entusiastiche che circolano in rete!
Citazione preferita
Ho fatto fatica a trovarne una che mi colpisse realmente e per questo vorrei solo offrire un piccolo suggerimento: leggete la tragedia greca dell’Alcesti o quantomeno dateci un’occhiata!
Note biografiche
Alex Michaelides è nato nel 1977 da padre greco e madre inglese. Ha studiato letteratura inglese all’Università di Cambridge e Cinema all’American Film Institute di Los Angeles. Il suo romanzo di esordio, La paziente silenziosa, ha venduto oltre un milione di copie negli USA ed è stato tradotto in 42 paesi. Per l’opera ha tratto ispirazione dal suo impegno in una clinica per giovani adulti, dopo gli studi in psicoterapia. È autore di sceneggiature di diversi film, tra cui La truffa è servita con Uma Thurman e Tim Roth. Nel 2021 è stato pubblicato il suo secondo romanzo, Le vergini.