Paolo Cognetti
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Con la partecipazione di Alessandro Bini
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Il 21 ottobre è uscita al cinema la pellicola tratta dall’omonimo libro di Donatella Di Pietrantonio, autrice di cui ho sempre apprezzato lo stile asciutto, senza fronzoli. Il linguaggio è tagliente ed estremamente crudo a tratti. Notevole la capacità di disegnare i suoi personaggi e le loro labirintiche complessità.
L’Arminuta è una parola del dialetto abruzzese il cui significato è “la ritornata”. Questo è il soprannome attribuito alla protagonista dai suoi fratelli e dai compagni di classe. Ha tredici anni e fino ad allora ha vissuto coccolata dalla madre e dal padre, nell’agio, in una bella casa al mare. Un giorno viene restituita ai suoi veri genitori – di cui ignorava l’esistenza – e si trova, d’un tratto, catapultata in una realtà a lei completamente estranea. Il borgo è asfittico, sembra appartenere ad un mondo antico, carico di superstizioni e antiche credenze. La famiglia sopravvive grazie al lavoro in una cava del patriarca e all’aiuto degli altri uomini di casa. Ci troviamo negli anni settanta, in un contesto rurale dove la scolarizzazione è molto bassa e profondo il disagio economico-sociale. Della ragazzina non viene mai fatto il nome durante la narrazione, quasi a volerne sottolineare la spersonalizzazione. Un oggetto spostato secondo gli umori dei grandi – questa è la percezione della piccola e del lettore. Si avverte fin dall’inizio il profondo senso di vergogna e disperazione dell’arminuta, abbandonata dai suoi affetti più cari e privata di ogni punto di riferimento. Il solo conforto giunge dalla sorella Adriana, una bambina che, pur nella distanza di esperienze vissute, ne comprenderà e condividerà appieno la desolazione e allo stesso tempo il forte desiderio di riscatto ed emancipazione. Questo è un libro in bianco e nero, dalle forti contrapposizioni, ma è anche, per l’appunto, un incoraggiamento alla tenacia e alla resilienza.
La trasposizione cinematografica è del regista Giuseppe Bonito. Nei panni della giovane protagonista Sofia Fiore.
La domanda a cui rispondo di frequente è se io abbia preferito il testo o la pellicola. Difficile dare una risposta in questo caso. Durante la visione ci sono stati diversi momenti in cui ho dovuto trattenere le lacrime, perché ho sentito, quasi lo vivessi in prima persona, tutto il dolore dell’arminuta. Una sofferenza vissuta in una dimensione intima, priva di una espressività urlata. Il film è costruito sui silenzi, con la scelta – a mio avviso vincente – di puntare sugli insistiti primi piano della talentuosa Sofia e della bravissima madre naturale, interpretata da una intensa Vanessa Scalera.
Una menzione speciale va fatta a Carlotta De Leonardis, che, con la sua Adriana, ha lasciato una impronta significativa sulla storia, grazie alla prepotente verve recitativa e al buffo e spontaneo atteggiamento da scugnizza.
Poche sono le differenze rispetto al romanzo. Si è puntato su un maggiore isolamento della famiglia, quasi a volerne sottolineare l’esistenza come un micro cosmo a sé. Nessun riferimento (che peccato!) all’ultimogenito Giuseppe, una creatura innocente intrappolata in una dimensione inafferrabile. Bella la fotografia, con una resa perfetta del contrasto, non solo visivo, tra l’immagine claustrofobica del paese e l’infinitezza del mare.
Un film che fa degli sguardi la sua forza, un libro che vive della impetuosità delle sue parole.