Li chiamavano “Treni della Felicità”, appellativo utilizzato per la prima volta dal sindaco di Modena Alfeo Corassori nell’immediato dopoguerra. Trasportavano i “piccirilli” del Sud, vittime di situazioni familiari drammatiche, causate da un profondo stato di indigenza. Il Meridione era in ginocchio, devastato dai bombardamenti angloamericani e dai combattimenti terrestri.
L’iniziativa fu presa dall’Unione donne italiane che chiese alle famiglie dell’Emilia Romagna di accogliere questi bambini ed assicurare loro, per mesi e talvolta per anni, un posto caldo e sicuro, cure, istruzione.
Una grande rete di solidarietà, che vide partire circa 70.000 piccoli, in particolare tra il ’46 ed il ’47. I più tornarono nella terra di origine, alcuni furono adottati.
Questa è la storia di uno di loro, Amerigo Speranza.
A 7 anni vive in uno dei tanti “bassi” di Napoli, con la taciturna ed impenetrabile madre, donna Antonietta. Non ha mai conosciuto il padre, partito – così gli viene fatto credere – per gli USA in cerca di fortuna. Nonostante l’estrema povertà e le conseguenti privazioni, è allegro, vivace, un vero monello. Lo chiamano Nobèl perché gli piacciono i numeri, li conosce a menadito, anche se ha smesso presto di andare a scuola. Ama la musica e va ad ascoltarla di nascosto. Il suo mondo ruota intorno alle donne del rione, la brava femmina Zandragliona e la Pachiochia, capa del vicolo. Entrambe “signurine” sono divise dal credo politico: l’una comunista, l’altra convintamente monarchica (ha in petto, appuntata con la spilla, l’immagine di re Umberto). Capa e’ fierro è un uomo sposato, mal tollerato, che vende le pezze al mercato ed è spesso ospite a casa sua poiché intreccia una relazione con la mamma. Un legame che è anche sostegno economico.
Un giorno si inizia a parlare tra i vicoli dei treni del Settentrione, si moltiplicano gli incontri con Maddalena la sindacalista e presto Amerigo, il suo furbetto amico Tommasino, la Mariuccia e tanti altri, si ritrovano alla stazione di Piazza Garibaldi. Sono tutti in partenza per Modena. Registrati, vestiti di tutto punto e nutriti. I genitori, emozionati e talvolta sollevati, li salutano, con la speranza che possano vivere, almeno per un periodo, una vita dignitosa, migliore.
Ed è l’inizio di una nuova esistenza. Circondato da volti diversi, che diventano in breve, familiari: la sua affidataria Derna, la sorella Rosa, il marito Alcide e i figli Rivo e Luzio. Una casa, una cameretta per sé, la scuola. Una normalità che, ai suoi occhi disincantati, appare come un sogno. Come la tavola imbandita a colazione.
Ma dovrà rientrare a Napoli e lì si scontrerà con una realtà che non gli appartiene più. La città, ferita e brutale, gli appare estranea. La mamma, sempre silenziosa, di una affettuosità spicciola, quasi rude, presa dall’esigenza di sbarcare il lunario, vende di nascosto il suo violino. Non un semplice strumento, ma una parte del suo cuore. Sembra un fantasma, un’anima persa “Te ne vai tutto il giorno in giro come uno stonato, tieni sempre il pensiero da un’altra parte, una faccia stravolta (Cit. pag 62).
E allora fugge, per tornare a Modena. Non farà più rientro al Sud, se per non per brevi visite. L’ultima, la più lacerante. Alla morte di donna “Antonietta”, nelle vesti di adulto ed affermato musicista, arriva in treno, con una viaggio simbolicamente “inverso”. Sarà questo il momento per fare pace con il suo passato ed i suoi fantasmi. L’incontro con il nipotino, l’occasione per tracciare il suo destino.
Il treno dei bambini è il racconto di uno spaccato della storia italiana, una cruda e reale rappresentazione del disastro sociale provocato dalla guerra. E lo specchio del solco socio-economico tra il Meridione ed il resto d’Italia. Allo stesso tempo è il simbolo di un collettivo moto di solidarietà, perché tale è stata l’iniziativa che ha condotto ai “treni della felicità”. Anche se vissuta, da tanti e dallo stesso protagonista, con disagio. “Sono stato aiutato, è vero, ma ho provato anche tanta vergogna. L’accoglienza, la solidarietà, come dici tu, ha anche un sapore amaro, per entrambe le parti, per quelli che la dànno e per quelli che la ricevono.” (cit. pag. 201).
Ma questa è soprattutto la storia di un amore silenzioso tra Amerigo e la madre Antonietta. Un legame fatto di parole mancate e abbracci negati. “Io dei bombardamenti mi ricordo il rumore delle sirene e gli allucchi della gente. Mia mamma mi prendeva in braccio e si metteva a correre. Andavamo nei rifugi e lei mi stringeva tutto il tempo. Io durante i bombardamenti ero felice”. (Pag. 27). Sì, lo era, per quello “stringere” tanto agognato. Un rapporto vissuto nel distacco, nella separazione. “La lontananza tra noi è diventata un’abitudine. Abbiamo disertato tanti appuntamenti. Dal momento in cui mi hai messo su quel treno, io e te abbiamo preso binari diversi, che non si sono più incrociati. Ma adesso che la distanza è incolmabile e so che non ti incontrerò più, mi viene il dubbio che sia stato tutto un equivoco, tra te e me. Un amore fatto di malintesi”. (Pag. 206). Solo durante il suo ultimo saluto, pur nella incapacità di trovare delle risposte a lungo attese, giunge, manifesta, la consapevolezza di un sentimento che è radice profonda. “Il fiore appassirà domani o dopodomani, non importa. Il pensiero di te non sfiorirà: tutti gli anni che abbiamo passato distanti sono stati una lunga lettera d’amore, ogni nota che ho suonato, l’ho suonata per te. Non ho altro da dirti…Quello che non ci siamo detti non ce lo diremo più, ma è bastato saperti dall’altra parte di quei chilometri di strada ferrata, per tutti questi anni, con le braccia strette a croce sul mio cappottino. Per me è lì che resti. Aspetti e non vai via.” (Pag. 228-229).
Libro di rara intensità, da far leggere ad adulti e bambini per ricordare un pezzo del passato e comprendere meglio il presente, con tutte le sue disuguaglianze sociali ed economiche. Un romanzo che ti prende l’anima e te la spezza in due. Due protagonisti, Amerigo e la madre Antonietta, indimenticabili nelle loro mute inquietudini. L’augurio è che in futuro vi sia una trasposizione sullo schermo all’altezza di un testo così magnificamente scritto. Uno dei più belli degli ultimi anni.
Il cuore del romanzo
“E le mamme vostre che vi hanno fatto salire sul treno per andare lontano, a Bologna, a Rimini, a Modena …non è amore pure questo?
Perché? Chi ti manda via ti vuole bene?
Amerì, a volte ti ama di più chi ti lascia andare che chi ti trattiene”
Note sull’autrice
Viola Ardone nasce nel 1974 a Napoli. Laureata in Lettere moderne , ha lavorato nel campo dell’editoria come autrice di manuali per la scuola e attualmente insegna italiano e latino in un liceo. Collabora con il Corriere del Mezzogiorno. Ha scritto diversi romanzi: La ricetta del cuore in subbuglio (2013), Una rivoluzione sentimentale (2016). Nel 2017 ha pubblicato Cyrano dal naso strano, una rivisitazione del grande classico tardo-ottocentesco di Rostand con le rime della filastrocca. L’ultima prova (Il romanzo di Nisida) del 2018 è il risultato del lavoro di diversi scrittori – Valeria Parrella, Patrizia Rinaldi, Maurizio De Giovanni, Antonio Menna, Daniela De Crescenzo, Riccardo Brun – che hanno collaborato nel corso di un laboratorio di scrittura nel carcere minorile di Nisida. Il libro narra la storia di un gruppo di giovani detenuti mentre si preparano a mettere in scena il Macbeth di William Shakespeare, guidati da due insegnanti. La sua opera più importante, Il treno dei bambini (2019) diventa un caso letterario internazionale.